Canto Secondo

Gli amori perduti o donati alla tempesta, offro devotamente a Potnih, la padrona delle fiere nonchè signora delle serpi. Il busto scoperchiato e la sottana ad inciampare i piedi, lerci come il fetore, acido di una strega santificata. Non me ne voglia Sur, il cieco Dio ctonio in capo cinto da pelle di cane. Già osannato. Irto, barbuto, invisibile, sul cocchio spaventoso di cavalli straneri, che di codesta cantica ne pescherà e custodirà i flutti. Come foglie di faggio che galleggiarono sulle vasche sacrificali. Come penne di civetta che mareggiarono nell’aere d’incenso. Come arance che rotolarono dalle sacre bigonce delle Ore. Innumerevoli sacrifici [nottetempo] libagioni di sangue rappreso nel soffiare sadico ed incessante del tempo umano. Esistettero gli oracoli viventi nei sotterranei dove albergati i morti scavarono templi di necromanzia. Esistettero, e nulla importa se ne abbiamo memoria o ce lo rammenti la storia ufficiale. I ricordi dell’infanzia benedetta. Il gioco di noi fanciulli che dissotterravamo fioriere per catturare lumache o lombrichi e domare lucertole. Redivivi rettili preistorici, che scioglievamo per correre nella sabbia od immobili a proteggere fantomatiche città fatte di sassi e avanzi di tufo. Condivido con te esploratore dello spirito questo mio desiderio irreprimibile di sfidare la sorte e avventurarmi ne l’ignoto, confesso a te sperimentatore del corpo tutto il timore che, ramingo viaggiatore, venga additato d’infestante pazzia dagli aborigeni. Nostomania e Nostofobia infondo sono due gemelle vedove. Orbe e indovine, indossano lana rossastra, d’azzurrite invece tingono le labbra. Addomesticano lupi, cucinano di radici le zuppe, guariscono tramite piante boschive, avvelenano con funghi nocivi. Provano a darmi tormento e alzare nebbie assassine. Vorrebbero che rinunciassi al viaggio che tanto ho preparato, di cui abbisogno, e qua descrivo. Nessun sogno, sia chiaro, bensì un’inspiegabile visione di traversate remote passate e presenti insieme, che mente anima e avventura esprimono. Sul delta del Gadalkvr sorge la navale Tarxis, fondata dal gigante tricefalo Gheryon, poi capitale coloniale della Turdetania. Prosperosa grazie a oro e argento, ma anche rame ferro piombo. E stagno addirittura, proveniente dalla lungacoda marina di Albion. Ubertosa di frutteti e frumento, pullula di carpentieri vasai fabbri nocchieri cucinieri allevatori e pescatori. Vi si pratica il culto, non autoctono, dell’eracleo Malku. Per sua liturgia è possibile ammirare tavole di smeraldo sui piedistalli placcati e odorare l’arrosto delle quaglie immolate dai sacerdoti. Ove giungo, riposato e rifornito a Thule, ascoltata la sibilla in Ogigia, dalla grand’isola patria un tempo colonia Iperborea. Mistica nostra(tica) origine ai confini del Mondo. Terramadre circumpolare divisa da quattro fiumi e circondata dai mari Scythico e Cronio, quindi dall’oceano Cimbrico. Arduo poterla raggiungere poiché popolata ai bordi naturali da genti bellicose che praticavano sacrifici umani e cannibalismo. Eppure vivevano fin lassù persone longeve e pacifiche e sagge. Riconosciuti per nomea come puri ed illuminati. Vi veneravano il grande fuoco celeste, si conviveva con l’aria come fosse acqua. In una neve di piume. Sacrificavano asini, cantavano insieme ai cigni, lasciavano ai grifoni custodire i forzieri d’ottone. Un eden, si tramanda, di perenne primavera, ove soffiava lo zefiro, vento dolce e costante. Niente malattie e guerra alcuna. Sempreverde, gli Dei stessi vivevano nei santuari loro eretti. Si poteva godere della notte polare e del sole di mezzanotte. I culti avevano radici così antiche da dirsi antecedenti alla luna. Qui ed ora, riparto. Sotto i miei passi un ponte di solida quercia cucito ad incastro e isolato con bitume e canapa, coadiuvato nella rotta da moltissimi remi. Sopra di me la più ampia delle tre vele, di lino color arancio. Nel centro esatto una testa di donna dai capelli d’edera, con subscritto il suo nome in caratteri misteriosi ai più, impressi poi sulla stele di Mesha: Acanthya. Mentre la prua rimane affusolata con una testa di cervo come polena e la poppa a terminare quasi fosse un tondo balcone, si erge centrale il cassero protetto dalla battagliola di legni intrecciati a ricamo, finemente decorati. Colla mia ciurma trasportiamo uomini ingegnosi, merci preziose, tecniche innovative, idee valide, ricette culinarie, semi per la coltivazione, materia prima in lingotti o semilavorata, attrezzi da lavoro od uso quotidiano ed artefatti. Abbiamo imbarcate anche le colombe perché possano al momento opportuno indicarci la terraferma. Odisseico come l’antieroe protagonista Larisso, vissuto durante i dimenticati millenni calcolitici, dopo il mio lutto paterno. Un’estenuante lotta contro il mare (le anime di entrambi, evidentemente) gravido di draghi acquatici, surreali crepuscoli, notti stellate ed altre creature fantastiche. Fino all’asilo e nido e ritorno dell’altra mia Isola, quell’anche immaginaria, dove la rispettiva sposa reale spera, sia sovrana che inconscio, per ambedue. Eneizante perfino, quando vagherò solo o disperso, simultaneamente all’attore principe, nel ponto dei pensieri radiosi e delle visioni oscure, ceduta a mio figlio mai nato la progenie della Rumia ancestrale. Senza dar notizie, senza lasciar traccia, senza fornire indizi. Quella umana è una condizione marziale. Amo indistintamente,
contemporaneamente, simultaneamente, retroattivamente, idealmente.
Mi dispero nel fango delle illusioni, come un maiale che si rotola
nell’impossibilità di evitare un destino di sangue. Senza conoscere
costellazioni, ormai cimiteri spaziali, che i sapienti annotano sui manuali e i
cartai chiamano per nome. Divinamente. Nel buio e nel gelo.
Strappandomi il cuore a morsi. Eppure respiro ancora. Questo il mio supplizio. Scrivere.