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Capitolo secondo -JEANNINE-

La cantina sverna botti di rovere e torba, ad incendiare l’aria di temporali preistorici, mentre si lamentano dei cenci i seppellitori di cadaveri. Murate vive, dei loro servigi clericali, un pianto mozzato le fantesche. Accovacciate o ancora scioccate. E gli albatro imbalsamati, sfiorano le pietre annerite, sulla brughiera appesa all’Altissimo. In bicroma successione, come colonnine di ossa (e tufo), svaniscono gli archi nell’antro oscuro d’una Sibilla inamata dai poeti ma amuleto di viaggiatori australi. La cugina Jeannine, vinto il buio, emerge inzuppata di porpora. “Gigantica”. Criniera fulva. Seno da asina gravida. Sul petto l’identico pugnale che suo patrigno reclamò per rifiuto del cielo, il rossetto dipinto/i guanti sterilizzati… un serraglio di scolari appestati. Con voce malvagia, minacciando lo scudiscio equino, esige che le siano lucidati gli stivali a tracolla.
La lingua diventa pennello e lui poppa i tacchi che da fallo ligneo si rivelano piedistallo di bellezza. Rosario a chiodi spolverati di cannella. […] Carnascialesco è il carro, che discesa, per amanti offre governanti altère e lattice travestito da donna. Un’armata di maschere terribili come seducente, danzando, seppe essere Salomé.
Di tutti i troni, unico in ottone, a sorgere dal porfido ed esalare vinsanto, castagne cotte e Serafini caduti.
“Spalanca la tua bocca ed ingoia!” [piegandosi, con una mano a riportare i capelli, gli sputa nell’orifizio superiore una generosa manna densa e giallastra]. Con sguardo monco lo fissa, vitrea iride l’orbita sinistra.
Smeraldo. Trafila chiassosa di candidi stalloni malati. Candelabri di peltro e brume. Slacciata la fibia delle décolletè si concede ai piaceri severi. Podofilia. Annusarli scalzi, e lavarglieli come farebbe un cane alla propria padrona. Il sapore si rivela agrodolce, rosaceo avocado cresciuto in Islanda. A carponi e guinzaglio viene trascinato nell’altare sbilenco dei feticci ex voto. Fatto accomodare a cavalcioni sul cuneo di cuoio viene imburrato nel deretano poi infilzato colle dita. Divelto a libidini schiumose capitola: ammanettato/incappucciato, e un collo di bottiglia per stupro. Risvegliato da un scroscio d’acqua del pozzo ed ancora stordito è costretto a coricarsi supino sul pavimento. Colmatagli la coppa di cristallo, viene dissetato con tiepida urina.
L’assaggio è alcalino ma insipido. Scortato poi fino alla toletta può defecare per abbandonarsi all’ammirazione del Buddha, addobbato di loto, che sigilla il gabinetto. Rivestendosi in un angolo ripassa la gioventù trascorsa, soldatini incolonnati sul viale di 500 balene spiaggiate. Maddalene rannicchiate nei rosoni dei cortili. Aste di gesso e costruzioni a incastro. Il guardaboschi donava tartufi e i braccianti insozzati di fatica salutavano i campi, forcina in spalla. Pollame spennato, massaie grasse, pentole tegami e padelle arroventate sulla ghisa domenicale. Fabbriche di vissuto disidratato e stoccato in cubi di plexiglass, sopra cui ballano intrattrenitrici notturne. Pipistrelli di metallo che aleggiano sulle carcasse di maiali immondi, razza sbattuta sul ventre gelido ed economico dei macelli umani. Stirpe, questa, che estinguerà prima della cattiveria insensata con cui i fanciulli già giocano.

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